La cronaca offre di che interrogarsi sul legame di lealtà e fedeltà ad un partito da parte di chi dovrebbe incarnarlo, essendone un rappresentante in ruoli istituzionali. Non mancano esempi che inducono a credere che questi valori oggi siano per lo meno in crisi, nel segno di un opportunismo e di un trasformismo crescente. Ciascun episodio può essere spiegato conoscendo i singoli attori e gli interessi che li spingono ad agire rompendo il patto di lealtà con il proprio partito (interessi di volta in volta politici, di potere, economici, ecc.). Per spiegare il fenomeno, può tuttavia essere utile riflettere sull’evoluzione che hanno vissuto i partiti in particolare dopo la caduta del muro di Berlino.
La fine rovinosa del comunismo e l’illusione che la storia fosse finita con la vittoria del capitalismo e del liberalismo, e la fine della guerra fredda, hanno fatto sciogliere velocemente come neve al sole quelle ideologie che avevano offerto nel bene e nel male una visione del mondo e dei valori a cui ciascun schieramento non poteva non riferirsi ed attenersi. L’azione politica era così guidata da questi quadri di riferimento, divenuti vere e proprie fedi, capaci di creare dei fortissimi vincoli di lealtà.
Superata l’era delle ideologie ed entrati in una nuova fase post ideologica, a quei quadri di riferimento è subentrata una politica ispirata al pragmatismo, alla gestione della società, con un orizzonte – secondo alcuni – non più vasto secondo una prospettiva storica (dal passato al futuro), ma in qualche modo angusto e mutabile quanto la quotidianità: una politica dunque «liquida» quanto la società di oggi, come ce l’ha descritta Bauman, e non aliena da un certo relativismo.
Ora, dovremmo per questo rimpiangere le vecchie ideologie e quell’«ordine» che sapevano costruire? Non crediamo, pensando alle tragedie immani che hanno potuto determinare e giustificare. Ma non si può nascondere il disagio provato da molti e che nasce dai limiti di un’azione politica che attualmente pare spesso aver perduto qualsiasi fondamento, con la sua volubilità più legata al successo occasionale, che alla realizzazione di risultati di ampio respiro e duraturi. Una politica in cui anche il pragmatismo arrischia di ridursi nel peggiore dei casi ad un semplice «agire per agire», con la relativa esaltazione dell’«uomo che fa» (chi non ricorda Berlusconi che stampigliava «fatto» sulle sue realizzazioni?).
Ma certo l’affievolirsi di linee direttrici, che si legge anche nella tendenza comune a tutti i partiti di ridurre i propri programmi ad una lista di cinguettii per twitter, non può che fragilizzare i legami di fedeltà, favorendo il frammentismo e l’incoerenza. Basti seguire con che disinvoltura oggi ogni politico rilascia ai media e sui social network dichiarazioni e interviste che possono subito venir smentite l’indomani con altre dichiarazioni di segno opposto, o votando calpestando quei principi di cui ci si fa pubblicamente paladino, in un carosello grottesco in cui quel che interessa maggiormente è spesso solo apparire, esserci, dire la propria, marcar presenza, quando non fare il botto.
Così, quel che un tempo sarebbe sembrato dissenso, con i connotati del «tradimento» e dell’«eresia», oggi diviene semplice disaccordo «puntuale», legato ad una singola questione piuttosto che ad un’altra.
Fermo restando la salvaguardia di quella libertà che spetta ad ogni membro di un partito o di un consesso politico, di fatto maggioranze e minoranze come decretate dalle elezioni arrischiano di perdere significato, pronte a comporsi o ricomporsi a seconda dei casi e delle convenienze, magari personali, creando una confusione che non può che ulteriormente allontanare l’elettorato dai partiti, sempre meno incline a sopportare le furberie della politique politicienne.
in “Corriere del Ticino”, 8.2.2017.